La piccola Marguerite era l'unica figlia di una coppia di giovani sposi a servizio presso i signori B. in una villa elegante con parco e giardino nella capitale Adidjian della Costa d'Avorio.
Suo padre era impiegato come custode e giardiniere, mentre la madre era una bravissima cuoca.
Le famiglie di entrambi i genitori discendevano dagli schiavi che lavoravano nelle piantagioni situate all'interno del paese ma, anche dopo l'abolizione della schiavitù, i parenti paterni avevano mantenuto un impiego nelle coltivazioni di ananas e frutta tropicale, mentre quelli materni in quelle del cotone.
Questo aveva i suoi vantaggi per Marguerite che così poteva ricevere quale regalo in occasione delle loro visite, il meglio dei frutti che la terra opulenta del suo paese sapeva produrre.
Il regalo in assoluto più gradito era quello che le portava lo zio materno: un sacco di iuta pieno zeppo di bambagia appena raccolta.
Nonostante fosse di poco più grande, sforzandosi al massimo di allargare le braccia, Marguerite riusciva a stringere quel dono in un abbraccio trepido di frenesia, ringraziando poi lo zio con negli occhi il suo sorriso più luminoso.
Appena si calmava dall'irrefrenabile danza di gioia che la scuoteva tutta, lo apriva e tuffava le sue manine brune nel morbido contenuto estraendone una bella manciata.
Quindi si accoccolava in una parte poco frequentata del pavimento e si dedicava al suo gioco preferito: strappare ciuffi di cotone di varie dimensioni per lavorarli in modo da ricavarne le multiformi tessere di un vaporoso mosaico che poi disponeva in un'incredibile varietà di composizioni.
La figlia dei signori B. aveva molte volte condiviso con lei un oggetto misterioso formato da tantissimi fogli sottili di un materiale lucido e compatto, simile al suo amato cotone. Era assemblato in modo da formare un blocco unico che poteva essere aperto per liberare magicamente una grande quantità di segni grafici incomprensibili ma accompagnati da incredibili immagini colorate, così simili a quelle delle sue fantasie, che ogni volta la piccola Marguerite rimaneva stupita di trovarle così pressate fra le pagine di quel libro di favole. Da esse traeva ispirazione per creare i suoi morbidi mosaici: potevano diventare un gruppo di candidi cigni sullo specchio di un lago o la fila di dame riccamente vestite ad un ballo di corte, oppure se li appallottolava con le dita, poteva creare collane di perle, coroncine e diademi da vera principessa.
A volte si ispirava anche alle cose che incontrava durante la sua giornata come fiori, animali, gli oggetti che trovava in giro o il viso delle persone care.
Questo gioco la assorbiva totalmente in una solitudine perfetta di silenzio e armonia.
Scoprirono la sua sordità molto tardi quando ormai aveva tre anni, e i signori B. si dimostrarono molto comprensivi e generosi con i suoi genitori.
Dopo le visite e gli esami prescritti, un giorno la mamma la condusse da un audioprotesista per effettuare la prima prova degli apparecchi che da allora in poi avrebbe dovuto usare.
Marguerite percepì il nervosismo della madre ma non ci fece caso perché era abituata al fatto che ogni volta che la giovane donna si recava con la piccola in città, provava molto fastidio per tutte quelle macchine e quella folla in movimento, abituata com'era alla quiete delle piantagioni in cui era nata e alla calma serena e composta della villa dei signori B. Marguerite invece era molto incuriosita dai palazzi moderni, dalle ville lussuose e dai giardini meravigliosi della capitale, anche se il traffico le dava un po' di vertigine.
Entrarono nello studio del medico e la bambina fu molto incuriosita dalla sua figura alta e slanciata, le sembrava un mago per via di quella strana tunica corta e bianca.
Dopo brevi scambi fra lui e la madre, estrasse da una scatola due piccoli oggetti che lei non aveva mai visto: sembravano la riproduzione in miniatura di quella cosa che nel libro di favole, se fregata con le mani, faceva uscire uno strano uomo senza gambe con un turbante sulla testa. Solo che erano due invece che una, ed erano entrambe collegate ad un tubicino trasparente che sembrava fatto di materia immaginaria.
Il Mago Bianco li infilò ognuno nei due buchi che la piccola aveva ai lati della testa ma che non aveva mai capito a cosa servissero, e successe una cosa molto strana e inquietante: qualcosa entrò con un urto nella sua testa, come se ci fosse stato lanciato dentro, e cominciò a muoversi, a volte bruscamente, a volte con un movimento arrotondato, ma sempre molto consistente.
Pensò al genio della lampada che aveva ricordato prima, e immaginò che due di quegli strani esseri le fossero entrati in testa creandole tutte quelle strane sensazioni di cui era sgomenta.
Il dottore la guardò negli occhi e cominciò a muovere la bocca in quel modo che usavano fare tutti intorno a lei e che aveva qualche volta scimmiottato ma senza in realtà ricavarne nessun divertimento.
Appena l'uomo cominciò quello strano esercizio, i diavoli nella sua testa cominciarono a muoversi con più forza, e sembrava che si spintonassero per cominciare una rissa.
Lo spavento cresceva velocemente dentro di lei.
Anche la mamma mosse la bocca e nuovamente i diavoli si azzuffarono. La cosa strana era che anche lei sentiva male, un male mai provato prima.
Uscirono dallo studio e i movimenti dei diavoletti erano sempre nuovi e imprevedibili
e sempre più grande era il suo disorientamento.
Cercò lo sguardo della madre e vi trovò una grande preoccupazione.
Uscirono per strada e Marguerite scoprì ciò che della città le era ancora sconosciuto: il rumore del traffico le schiacciò l'anima contro un muro di solido terrore.
Si mise a piangere e la sua stessa voce le stritolò il cranio in una morse d'acciaio.
Nel taxi che le riportò a casa finalmente trovò un po' di tregua anche perché, mancandole il fiato, il suo pianto si interruppe.
Quella sera e nei giorni successivi cercò sempre di strappare via quelle orrende lampade stregate e solo l'insistenza dei genitori, amorevole ma ferma, e il loro sguardo triste e preoccupato la convinsero ad accettare ogni volta il rinnovarsi di quell'incubo.
Nei mesi successivi tutti intorno a lei cercarono di muoversi con cautela, parlando a bassa voce, evitando così rumori eccessivi e improvvisi e lasciarono spesso la bambina da sola, ma sempre sorvegliandola da lontano, perché si dedicasse con tranquillità al suo gioco dei fiocchi di cotone.
Erano tutti inteneriti da quelle manine scure che, con gesti delicati, sembravano aggrapparsi ai quei frammenti fragili e leggeri che il più lieve soffio di vento avrebbe potuto spazzare via. Tutti sapevano che Marguerite in quei momenti era al sicuro nel suo mondo solitario.
Tornarono varie volte dal Mago Bianco, che ora le faceva così paura, ma che sembrava conoscere una strana magia che induceva i diavoletti litigiosi a diminuire sempre più la ferocia dei loro assalti.
Ogni sera, con le orecchie finalmente libere dalle protesi, si addormentava nel conforto del silenzio, ma al risveglio, ogni giorno, avrebbe voluto chiedere il perché di quella punizione, ma solo agli udenti è concesso di organizzare e smaltire le proprie angosce nella sequenza dei “perché”, ai bambini sordi resta solo il tormento di un' angoscia senza forma.
Col passare degli anni la bambina si adattò alla nuova situazione e con curiosità, intelligenza e una buona dose di fantasia, riuscì a comprendere molte cose.
La prima era che tutti quei movimenti strani fatti con la bocca finalmente avevano un senso: servivano a far muovere i diavoletti!
Anche sul loro movimento aveva ragionato.
Si ricordava che durante le feste, aveva visto che le persone potevano muoversi allo stesso ritmo che anche lei riusciva a seguire percependo i sobbalzi del suo diaframma: questo era il “Ballo”.
Pensò che anche i diavoletti dovessero ballare seguendo il ritmo imposto dai movimenti della bocca di chi vicino a lei stesse parlando.
La sua testa era dunque una sala da ballo sul cui pavimento i diavoletti danzavano i suoni che provenivano dall'esterno.
A seconda della loro altezza, i passi corrispondenti potevano essere più pesanti o più leggeri.
Se i suoni erano molto acuti, poteva capitare che i diavoletti non toccassero più il pavimento della sua “Testa- Sala da Ballo” e sembrassero volati via.
Aveva anche arguito che ogni parola che veniva pronunciata era un particolare passo della danza, e che tante parole in fila erano la sequenza dei passi di un ballo.
Questo ballo si chiamava “Discorso”.
Avevano cercato di insegnarle a pronunciare le parole, ma a lei non piaceva “muovere la bocca” perché bisognava anche dare forma al respiro con i muscoli della gola, come lei con le dita sapeva dare forma ai suoi fiocchi di cotone, ma quando lo faceva i diavoletti sembravano danzare in modo strano e scomposto, e questo le dava fastidio.
Decise quindi di restare muta.
Tutto questo le costava grande fatica, tanto impegno e lunghe ore di esercizio, ma appena poteva, liberatasi delle protesi, si rifugiava nel suo gioco silenzioso ed era come un ritorno a casa, per ritrovare la sua verità, la sua essenza.
In quei momenti sua madre, se era libera dal suo lavoro, la guardava a lungo, ammirandone il talento nel saper dare forma con le mani a quella fibra vegetale, che per lei costituiva l'anima comune di tutta la sua famiglia di ex schiavi della piantagioni, e le venne in mente di completare questo miracolo insegnandole a tessere.
Con grande rispetto e cautela, cominciò ad avvicinarsi ai confini di quel mondo magico del gioco della figlia, aspettando che fosse lei a concederle di entrare e poi con i gesti, le parole e con grande amore, guidò le sue mani perché riuscissero ad ottenere da quella massa bianca e informe, un filo di fibre avvolte e agganciate l'una all'altra lungo quanto si voleva. Marguerite apprese in fretta questa nuova abilità e la introdusse quale nuovo elemento nelle sue creazioni.
In una fase successiva, le fece capire che quel filo era ancora troppo fragile ed era giusto che fosse così, ma che si poteva acquistare un filo lunghissimo e resistente prodotto dalle macchine in un luogo chiamato “filanda”.
Con esso si potevano fare nodi di vario genere e, aiutati da un piccolo uncino, si potevano fare oggetti di pregio alla moda europea.
Ma le interessava soprattutto condurla per il sentiero conosciuto delle sue tradizioni.
Comprarono un piccolo telaio con cui insieme cominciarono a tessere piccoli scampoli di tela, via via sempre più lunghi ed elaborati, fino a portarla all'utilizzo dei fili colorati con cui creare le esuberanti fantasie cromatiche tipiche della sua etnia.
Ci volle molto tempo, ma Marguerite era molto abile con le mani ed imparò con entusiasmo, ma non smise mai di giocare con i suoi candidi fiocchi, neanche quando ormai stava uscendo dall'infanzia.
Finiti i lavori che svolgeva come domestica, le ore di studio e quelle passate al telaio, a tarda sera si sedeva sul tappeto della sala grande, come quando era piccina, e ritornava nel suo mondo togliendosi le protesi.
Assaporava il crocchiare sommesso e profondo delle fibre di cotone che si strappavano sotto i polpastrelli delle sue dita con tutto il suo essere, come in una meditazione, dalla quale traeva poi le immagini che prendevano forma nella disposizione dei fiocchi che aveva prodotto.
L'impegno che metteva nello studio e il lavoro al telaio avevano generato in lei una sorta di magica consapevolezza che la spinse ad ottenere risultati sempre migliori.
Aveva assimilato l'uso delle parole interpretandole come i passi della danza dei diavoletti e i discorsi come le sequenze che formano un ballo. Alle “Passo- Parole” e ai “Ballo-Discorsi” si aggiunsero anche i “Ballo-Pensieri” o “Ballo-Ragionamenti” quando, col tempo, si accorse che i diavoletti potevano ballare anche se non c'era nessuno nelle vicinanze a muovere la bocca.
Le era parso strano che potesse guidare lei stessa nella sua mente i diavoletti nella loro danza, ma poi si era abituata.
Con l'aiuto di sua madre e il lavoro al telaio, successe che il “Ballo-Pensieri” e i “Ballo-Discorsi” furono affiancati dai “Filo-Pensieri” e i “Filo-Discorsi” perché entrambi si potevano seguire, tirare proprio come un filo, e a volte, purtroppo, si ingarbugliavano anche.
Procedendo in questa evoluzione, i “Filo-Discorsi” potevano diventare le “Trame” di un ragionamento complesso, il “Tessuto” di un' argomentazione.
Finalmente arrivarono i colori a portare le emozioni, come nella narrazione di un romanzo, mentre i motivi geometrici dei suoi tessuti etnici furono le “Rime” di una poesia. Grazie al lavoro al telaio, Marguerite spinse la sua curiosità verso testi scritti sempre più complessi.
Tutto procedeva di pari passo nella sua testa come fra le sue mani, portandola sempre più avanti nella consapevolezza di sé e arricchendola interiormente come poche fra le persone più care che da sempre le stavano vicino avrebbero potuto immaginare.
Tanto tempo era passato e ormai Marguerite era diventata una bellissima giovane donna piena di talento e di sensibilità.
Una notte fece un sogno:
era nella penombra di una stanza ovale sgombera da mobilio ma arricchita da stucchi alle pareti e da sontuosi tendaggi di velluto azzurro che ornavano i due ingressi opposti e le due grandi finestre affacciate su uno splendido giardino inondato di sole.
Da uno degli ingressi cominciò ad intravedere una sagoma enorme che si avvicinava.
La figura si delineò in quella di due persone in sella ad un cavallo.
Finalmente entrarono nella stanza oltrepassando l'ampio riquadro dell'ingresso e comparve un magnifico cavallo bianco con, sul dorso, una donna seminuda, seducente e bellissima, nell'atto di un tenero abbraccio, rivolta verso un uomo vestito di verde che da dietro la sosteneva tenendo le briglie. Il cavallo passò davanti a Marguerite.
Folgorata dalla bellezza della scena, fece appena in tempo a notare che l'animale teneva appesi al morso un mazzo di rose e un violino, che li vide allontanarsi ed uscire attraverso la porta situata all'altro capo della stanza.
Si svegliò di soprassalto. Non aveva mai visto niente di più bello!
Venne il mattino, era domenica, e non dovendo occuparsi dei suoi impegni di studio, si recò fuori sotto al porticato e sedette al tavolo di marmo portando con sé il suo sacco di iuta con la bambagia.
Avrebbe voluto fare il suo solito gioco ma continuava a pensare al sogno a al violino che, col suo significato, velava quel magico ricordo di malinconia.
Quello strumento dalle note così alte da essere per lei irraggiungibili le ricordava la sua sordità e per questo, a suo giudizio, relegava quel sogno d'amore per sempre al di fuori della sua realtà personale.
Così assorta, aveva disposto i fiocchi di cotone in modo uniforme senza configurare nulla di preciso, quando alzando lo sguardo vide il suo principe.
Non sapeva chi fosse, né il perché del suo arrivo, ma era certa di una cosa:
le piaceva tantissimo!
Lo vide passare mentre cercava suo padre per prendere servizio come aiuto giardiniere, e non riusciva a distogliere lo sguardo, mentre lui la ricambiava con un sorriso.
Non c'erano violini a suonare quando lei, avendolo perso di vista, chiuse gli occhi respirando a mala pena, ma quello che apparve nella sua mente fu forse più piacevole della più dolce melodia: migliaia di fiocchi si alzarono dal tavolo per fluttuare nell'aria intorno a lei e si accesero di una luce d'oro come tante schegge di sole vaporose e morbide che le sciolsero ogni malinconia e le illuminarono il sorriso, e non sentì più i diavoletti muoverle i pensieri ma solo un nuovo e formidabile ballerino che dal petto le era balzato in gola per saltare come un matto fino a farle rimbombare le tempie e a spezzarle il fiato.
In seguito si conobbero e si frequentarono ma fra di loro era già successo tutto al primo sguardo.
Erano certi ognuno di una cosa:
lei che non fossero solo i suoi talenti e la sua bellezza ad attrarlo e che non lo avrebbero respinto i suoi problemi, e lui che la aveva cercata da sempre e che l'avrebbe sempre amata col suo silenzio e il suo magico Gioco dei Fiocchi di Cotone.