'A 15 anni dipingevo come Raffaello, ho impiegato tutta la vita per imparare a dipingere come un bambino' (P. Picasso)

sabato 27 agosto 2011

L' albero degli applausi

Era un bel giorno d'estate, faceva molto caldo in quel periodo, e i genitori decisero di portarla in montagna al fresco, nel “Paese degli Ughi”.
In quella piccola borgata di poche case meta della loro escursione, in effetti sono in molti ad avere quel nome: Ugo il “Fungaiolo”, Ugo “Barbetta”, Ugo il fratello del sindaco....., il sindaco però si chiama Giuseppe, ed è il più bravo di tutti.
Arrivati in tarda mattinata, subito si dedicarono assieme agli zii alla preparazione del pranzo e, di conseguenza, alla sua degustazione.
Nel pomeriggio, dopo la pennichella, andarono a passeggio nel bosco seguendo i sentieri più praticabili, e raccolsero pietre luccicanti di origine lavica, ramoscelli secchi ricoperti di licheni dalle forme strane, e qualche fiore selvatico dai colori sgargianti.
Tornati a casa fecero merenda e poi aspettarono l'ora di cena godendosi il fresco e la bellezza del paesaggio.
Erano tutti molto impegnati ad oziare quando il suo sguardo fu attratto da qualcosa di sorprendente.
Erano cadute alcune gocce di pioggia subito dopo il rientro dalla passeggiata, ma in seguito il sole era tornato a giocare con le nuvole insieme al vento di alta quota. Nessuno si aspettava che il suo gioco avrebbe regalato a tutti una sorpresa.
I suoi raggi andarono a scovare fra i rami di un abete alto e solenne, qualche goccia di pioggia che potesse aiutarlo a creare un effetto magico e divertente, e fu così possibile vedere una gemma di luce arancione accendersi lentamente e brillare proprio in prossimità della cima di quell'albero che si stagliava contro l'angolo più luminoso del cielo, dove il sole si stava andando a nascondere dietro alle montagne.
Man mano che i raggi di luce che la intercettavano cambiavano la loro inclinazione, quella piccola gocciolina solitaria con timidezza faceva capolino nella sagoma scura dell'abete circondato dal chiarore delle nuvole e, come per rispetto del grande albero che la ospitava, solo poco alla volta raggiungeva tutto il suo splendore per essere ammirata anche da lontano.
Manteneva il suo grazioso bagliore per qualche minuto poi, sempre piano piano, si nascondeva di nuovo nell'ombra per lasciare la scena ad un' altra gemma di luce di un altro colore, che si schiudeva timidamente in un altro punto dell'albero.
In questo modo furono parecchie le “sorelline lucenti” che fecero la loro comparsa rispettose del loro turno, e ognuna di un colore diverso.
Forse da questo hanno preso l'idea per inventare l'Albero di Natale, pensò, solo che le luci non si accendono una per volta.
Era così felice che non riusciva a stare ferma e alzando le braccia, cominciò ad agitare le mani facendo il segno LIS degli “applausi” ma subito si fermò gridando di sorpresa per indicare un albero poco lontano che sembrava imitarla.
La pioggia aveva reso lucide le fronde degli alberi tutt'intorno e il vento le stava muovendo leggermente, ma il Pioppo Tremulo sembrava in grado di muovere ogni singola foglia indipendentemente dalle altre: anziché vederle in movimento seguendo l'oscillazione dei rami a cui erano attaccate, l'effetto ottico era quello di vedere tante mani che si muovevano proprio come stava facendo lei in quel momento.
Era come se l'unico albero che potesse dimostrare la sua gioia insieme a lei, lo facesse applaudendo con tutte le sue foglie.
Quel posto era veramente pieno di cose interessanti: non solo c'erano tanti Ughi e gli abeti, insieme al sole e alla pioggia, avevano inventato le luci di Natale, ma c'erano anche gli “alberi degli applausi”.
Considerando tutte queste novità, si fece promettere dai genitori di farsi portare più spesso in montagna a trovare gli zii.

.Quando sarà più grande, forse le capiterà di leggere da qualche parte che alcuni udenti hanno una venerazione per la parola scritta, per la poesia, ma questo per lei non avrà mai alcun significato. Non esiste un'esperienza possibile nella sua vita che le possa permettere di sentire la bellezza della parola come una cosa sua, che le appartenga nel profondo.
La musicalità di un verso poetico, il suo ritmo, le varie gradazioni di intensità delle emozioni che esso può suscitare, per lei saranno cose impossibili da raggiungere, e forse neanche le mancheranno perché resteranno del tutto sconosciute .
La vista del pioppo tremulo che applaudiva a quello spettacolo di luce improvviso, per condividere la sua gioia, aveva per lei un grande valore, diverso da quello che poteva rappresentare per tutti gli altri.
Era un'immagine che sicuramente valeva più di mille parole, ed esprimeva in modo perfetto quella felicità giocosa di una bambina che ha ricevuto un regalo meraviglioso e inaspettato.


La farfalla ubriaca

Tanto tempo fa le Fate si chiamavano Ninfe ed ognuna aveva un compito preciso.
Iride è la Fata che dipinge l'arcobaleno nel cielo e da sempre ha un mucchio di lavoro da fare in giro per il mondo, soprattutto in luoghi come la Gran Bretagna, dove il sole e la pioggia si alternano molte volte al giorno, o in prossimità delle grandi cascate, a causa delle enormi quantità di acqua nebulizzata che si sollevano in aria prodotte dagli spruzzi.
Per questo motivo, stanca di faticare sempre così tanto e delusa e depressa dal fatto che molto spesso le sue opere d'arte non venissero neanche notate dagli umani, decise di andare in vacanza, non solo per riposarsi, ma anche per tirarsi su di morale.
Niente più arcobaleni quindi!
Tutti gli Spiriti di Natura, anche se solidali con la decisione della loro amica Iride, si preoccuparono molto di quello che sarebbe venuto a mancare, soprattutto in quel periodo dell'anno, la primavera, momento in cui tutti i colori dei fiori, delle foglie e del cielo sono più accesi e più allegri e fanno tanto bene a tutti per appagare gli animi dopo la tristezza dell'inverno.
Bisognava quindi trovare dei supplenti, pronti ad operare in ogni parte del mondo.
Nel cielo sopra al giardino della nonna di Greta non trovarono nessuno che si offrisse per svolgere questo incarico, allora i folletti dei pomodori e delle zucche, che sono i più intelligenti perché riescono a fare maturare i frutti attaccati a delle piante così gracili che da sole non riuscirebbero a reggerli, suggerirono di nominare le farfalle come supplenti, visto che di colori se ne intendono.
Non tutte però erano pronte a darsi da fare.
Quel pomeriggio le nuvole avevano danzato molto nel cielo, trascinate dal vento come da una musica irresistibile, e avevano scaricato al suolo gocce d'acqua di ogni misura, dalle più pesanti e irruenti, alle più leggere e carezzevoli.

Tutti gli abitanti del giardino avevano reagito a questi eventi atmosferici, chi traendone vantaggio perché sulla terra bagnata si muove con meno fatica, come la lumaca calma e pacata, o come la biscia, infida e pettegola che sbeffeggia chi dalla pioggia è molto ostacolato e stava correndo velocemente a cercare un riparo, come le povere formiche.

Solo una farfalla un po' sciocca, che forse aveva succhiato troppo nettare dai fiori e si era inebriata, non si era accorta che la pioggia bagnava le sue ali rendendole difficoltoso il volo, e continuava a spostarsi da una parte all'altra cantando a squarcia gola.


Terminato l'acquazzone, era il momento di darsi da fare per produrre un bell'arcobaleno e le altre farfalle si alzarono in volo per trasportare i loro colori in alto nel cielo.
La farfalla ubriaca, non solo non era in grado di volare perché si era appesantita le ali, ma i suoi colori si erano annacquati e quindi avevano una dominante d'azzurro che non andava bene per un arcobaleno di primavera.
Inoltre gli abili folletti ingegneri si accorsero che il volo delle farfalle procede in modo irregolare e quindi le poverine che si erano tanto alacremente prestate per quel' emergenza, facevano molta fatica a realizzare la traiettoria precisa dell'arcobaleno che tutti stavano aspettando.
Intervennero prontamente i passeri che si offrirono di aiutare le farfalle facendosi prestare un po' dei loro colori e volando rapidi su nel cielo.
Appena in tempo!
In mezzo ai cespugli di peonia erano tutti pronti a festeggiare l'arrivo di un nuovo fratellino che un pulcino stava aspettando con ansia.

Come si faceva senza arcobaleno?

 

FINE


venerdì 26 agosto 2011

Il gatto luminoso

Nel cortile del palazzo dove abita Greta c'è un ospite di riguardo. E' Gino il gatto Canterino, famoso per le sue miagolate strappalacrime che usa per ottenere attenzione, cibo e coccole. E' un vero gatto da strada, a giudicare dalle ferite di battaglia che presenta sul corpo, ed è giunto da non si sa dove qualche anno fa.
Avendo capito che i genitori di Greta sono molto generosi con i trovatelli, ogni tanto si porta dietro qualche amico, ed è come se lo invitasse al ristorante. Spesso succede che i nuovi ospiti facciano ritorno per qualche giorno di seguito, dimostrando così di apprezzare i croccantini generosamente elargiti, ma a volte capita che Greta li terrorizzi con le sue esplosive manifestazioni di affetto e li faccia scappare.
L'anno scorso, per un certo periodo, Gino era venuto in compagnia di altri due gatti per i quali Greta aveva cercato di trovare dei nomi appropriati.
Per uno scelse il nome di Angelino perché era simpatico e di buone maniere, ma per l'altro si rese conto che forse aveva qualcosa di particolare che doveva essere meglio individuato.
Era un gatto giovane, forse domestico ma in trasferta per cercare una fidanzata, ed aveva l'aria un po' spocchiosa dei giovani alla moda che si mettono in mostra e che fanno i “fichetti”, che magari non vanno in palestra perché sono pigri, ma che si fanno la lampada, i colpi di sole e il taglio trendy.
Era successo che una sera, quando Greta e i suoi si erano ritirati per andare a dormire, quel gatto appena arrivato aveva cominciato a guardare con un certo interesse le lucciole.
Era giugno inoltrato e nel cortile avevano fatto la loro comparsa quei puntini luminosi e leggeri che volano lenti arrivando dall'orto dietro al palazzo. Greta li aveva osservati a lungo, incantata dalla loro luce intermittente, ed era anche riuscita a farsene posare una sulla mano che aveva teso verso di loro trattenendo il fiato. Le piaceva molto come comparivano e sparivano volando dietro le foglie della siepe, ogni tanto le perdeva di vista o ne ritrovava due dove prima ne vedeva solo una. Per Greta le lucciole sono proprio magiche!
Anche il gatto, dunque, le aveva notate ed era molto invidioso del loro fascino e forse decise di copiarle.
Il giorno dopo, studiando sempre sul nome da dare al nuovo “amicio” di Gino, Greta si accorse che la sua caratteristica principale era quella di avere il pelo più chiaro degli altri, più “luminoso” e ricordandosi dei meravigliosi insetti della sera precedente, pensò che quello strano gatto così vanitoso si fosse fatto i “colpi di lucciola”.
Finalmente il terzetto era completo: Gino, Angelino e Luminoso. Chissà che successo con la gattine del quartiere!



Fine

Il gufetto studioso

Erano le dieci e mezza quando Greta entrò in camera sua per andare a dormire.
Prima di addormentarsi la sua attenzione fu attratta da qualcosa che era apparso oltre la finestra, si era appoggiato sul filo della stesa e sembrava stesse osservandola. Greta si alzò dal letto per capire cosa fosse e guardando meglio al chiarore del lampione, si accorse che si trattava di un piccolo gufo, tutto grigio, che non distoglieva lo sguardo da lei.




Pensierosa, Greta tornò a coricarsi e piano piano si addormentò.
Poco dopo, con le sue ali silenziose, il gufetto entrò nei sogni di Greta ma non le fece paura, perché le sue intenzioni erano pacifiche. Con gli occhi chiusi lei lo vide che sbattendo l'ala destra, fece comparire una minuscola scrivania, alzando l'ala sinistra, creò una piccola lampada luminosa, e scuotendo entrambe le ali, un libro si aprì cadendo sul ripiano illuminato.
Greta non sapeva come trattenere le risate quando lo vide infilarsi sul becco un paio di occhiali da lettura, perché aveva paura di svegliarsi o di farlo volare via. Così rimase calma e poco dopo, quando i sogni ricominciarono a scorrere fra di loro, Greta si sentiva rassicurata da quella presenza amica.
Al mattino, faticoso risveglio, colazione, baruffa con la mamma, e poi a scuola.
Durante la mattinata si accorse di sapere benissimo la lezione che aveva studiato il giorno prima e improvvisamente si ricordò del gufetto misterioso che le aveva fatto visita. Tutta contenta, quel giorno passò il pomeriggio a giocare e si dimenticò di fare i compiti.

Venne la sera e Greta andò a controllare: il gufetto c'era!
Prima di addormentarsi sentì sul viso un soffio leggero di aria fresca e così accolse sorridendo il gufetto nei suoi sogni. Qualcosa però era cambiato rispetto alla notte precedente: comparvero magicamente la scrivania, la lampada, il libro si aprì ma il gufo non leggeva e continuava a guardarla. Greta si stupì ma poi i sogni cominciarono a scorrere fra di loro e la compagnia del gufo le fece lo stesso piacere della prima volta.
Il giorno dopo, a scuola, fu dispiaciuta di scoprire che non sapeva la lezione e così evitò di mettersi in mostra alzando la mano per rispondere alle domande della maestra.
Quello che era accaduto le diede da pensare e così, quel pomeriggio, decise di fare i compiti e di studiare la lezione.

Alla sera vide il gufetto, si addormentò, lo accolse nei suoi sogni e il gufetto le tenne compagnia per tutta la notte studiando il suo gran librone.
La mattinata successiva Greta fu brillante e la maestra si disse molto contenta di lei.
Tornata a casa dopo mangiato, le venne un gran sonno e decise di fare un pisolino. Quando cominciò a sognare vide il gufetto che …...dormiva appoggiato sul suo libro. Greta pensò che avendo studiato tutta la notte, a quell'ora del giorno, poverino, doveva essere stanco!

Capì anche che il gufo poteva solo suscitare i suoi ricordi ma non poteva suggerirle la lezione, se lei non la aveva studiata.

Prima di risvegliarsi dal suo pisolino volle fargli una carezza leggera perché si sentiva riconoscente.
Poi si svegliò, fece i compiti ed ebbe anche il tempo di giocare, ma non vedeva l'ora di rincontrare il suo compagno di sogni e …...di studi.


Fine




Il gioco dei fiocchi di cotone

La piccola Marguerite era l'unica figlia di una coppia di giovani sposi a servizio presso i signori B. in una villa elegante con parco e giardino nella capitale Adidjian della Costa d'Avorio.
Suo padre era impiegato come custode e giardiniere, mentre la madre era una bravissima cuoca.
Le famiglie di entrambi i genitori discendevano dagli schiavi che lavoravano nelle piantagioni situate all'interno del paese ma, anche dopo l'abolizione della schiavitù, i parenti paterni avevano mantenuto un impiego nelle coltivazioni di ananas e frutta tropicale, mentre quelli materni in quelle del cotone.
Questo aveva i suoi vantaggi per Marguerite che così poteva ricevere quale regalo in occasione delle loro visite, il meglio dei frutti che la terra opulenta del suo paese sapeva produrre.
Il regalo in assoluto più gradito era quello che le portava lo zio materno: un sacco di iuta pieno zeppo di bambagia appena raccolta.
Nonostante fosse di poco più grande, sforzandosi al massimo di allargare le braccia, Marguerite riusciva a stringere quel dono in un abbraccio trepido di frenesia, ringraziando poi lo zio con negli occhi il suo sorriso più luminoso.
Appena si calmava dall'irrefrenabile danza di gioia che la scuoteva tutta, lo apriva e tuffava le sue manine brune nel morbido contenuto estraendone una bella manciata.
Quindi si accoccolava in una parte poco frequentata del pavimento e si dedicava al suo gioco preferito: strappare ciuffi di cotone di varie dimensioni per lavorarli in modo da ricavarne le multiformi tessere di un vaporoso mosaico che poi disponeva in un'incredibile varietà di composizioni.
La figlia dei signori B. aveva molte volte condiviso con lei un oggetto misterioso formato da tantissimi fogli sottili di un materiale lucido e compatto, simile al suo amato cotone. Era assemblato in modo da formare un blocco unico che poteva essere aperto per liberare magicamente una grande quantità di segni grafici incomprensibili ma accompagnati da incredibili immagini colorate, così simili a quelle delle sue fantasie, che ogni volta la piccola Marguerite rimaneva stupita di trovarle così pressate fra le pagine di quel libro di favole. Da esse traeva ispirazione per creare i suoi morbidi mosaici: potevano diventare un gruppo di candidi cigni sullo specchio di un lago o la fila di dame riccamente vestite ad un ballo di corte, oppure se li appallottolava con le dita, poteva creare collane di perle, coroncine e diademi da vera principessa.
A volte si ispirava anche alle cose che incontrava durante la sua giornata come fiori, animali, gli oggetti che trovava in giro o il viso delle persone care.
Questo gioco la assorbiva totalmente in una solitudine perfetta di silenzio e armonia.
Scoprirono la sua sordità molto tardi quando ormai aveva tre anni, e i signori B. si dimostrarono molto comprensivi e generosi con i suoi genitori.
Dopo le visite e gli esami prescritti, un giorno la mamma la condusse da un audioprotesista per effettuare la prima prova degli apparecchi che da allora in poi avrebbe dovuto usare.
Marguerite percepì il nervosismo della madre ma non ci fece caso perché era abituata al fatto che ogni volta che la giovane donna si recava con la piccola in città, provava molto fastidio per tutte quelle macchine e quella folla in movimento, abituata com'era alla quiete delle piantagioni in cui era nata e alla calma serena e composta della villa dei signori B. Marguerite invece era molto incuriosita dai palazzi moderni, dalle ville lussuose e dai giardini meravigliosi della capitale, anche se il traffico le dava un po' di vertigine.
Entrarono nello studio del medico e la bambina fu molto incuriosita dalla sua figura alta e slanciata, le sembrava un mago per via di quella strana tunica corta e bianca.
Dopo brevi scambi fra lui e la madre, estrasse da una scatola due piccoli oggetti che lei non aveva mai visto: sembravano la riproduzione in miniatura di quella cosa che nel libro di favole, se fregata con le mani, faceva uscire uno strano uomo senza gambe con un turbante sulla testa. Solo che erano due invece che una, ed erano entrambe collegate ad un tubicino trasparente che sembrava fatto di materia immaginaria.
Il Mago Bianco li infilò ognuno nei due buchi che la piccola aveva ai lati della testa ma che non aveva mai capito a cosa servissero, e successe una cosa molto strana e inquietante: qualcosa entrò con un urto nella sua testa, come se ci fosse stato lanciato dentro, e cominciò a muoversi, a volte bruscamente, a volte con un movimento arrotondato, ma sempre molto consistente.
Pensò al genio della lampada che aveva ricordato prima, e immaginò che due di quegli strani esseri le fossero entrati in testa creandole tutte quelle strane sensazioni di cui era sgomenta.
Il dottore la guardò negli occhi e cominciò a muovere la bocca in quel modo che usavano fare tutti intorno a lei e che aveva qualche volta scimmiottato ma senza in realtà ricavarne nessun divertimento.
Appena l'uomo cominciò quello strano esercizio, i diavoli nella sua testa cominciarono a muoversi con più forza, e sembrava che si spintonassero per cominciare una rissa.
Lo spavento cresceva velocemente dentro di lei.
Anche la mamma mosse la bocca e nuovamente i diavoli si azzuffarono. La cosa strana era che anche lei sentiva male, un male mai provato prima.
Uscirono dallo studio e i movimenti dei diavoletti erano sempre nuovi e imprevedibili
e sempre più grande era il suo disorientamento.
Cercò lo sguardo della madre e vi trovò una grande preoccupazione.
Uscirono per strada e Marguerite scoprì ciò che della città le era ancora sconosciuto: il rumore del traffico le schiacciò l'anima contro un muro di solido terrore.
Si mise a piangere e la sua stessa voce le stritolò il cranio in una morse d'acciaio.
Nel taxi che le riportò a casa finalmente trovò un po' di tregua anche perché, mancandole il fiato, il suo pianto si interruppe.
Quella sera e nei giorni successivi cercò sempre di strappare via quelle orrende lampade stregate e solo l'insistenza dei genitori, amorevole ma ferma, e il loro sguardo triste e preoccupato la convinsero ad accettare ogni volta il rinnovarsi di quell'incubo.
Nei mesi successivi tutti intorno a lei cercarono di muoversi con cautela, parlando a bassa voce, evitando così rumori eccessivi e improvvisi e lasciarono spesso la bambina da sola, ma sempre sorvegliandola da lontano, perché si dedicasse con tranquillità al suo gioco dei fiocchi di cotone.
Erano tutti inteneriti da quelle manine scure che, con gesti delicati, sembravano aggrapparsi ai quei frammenti fragili e leggeri che il più lieve soffio di vento avrebbe potuto spazzare via. Tutti sapevano che Marguerite in quei momenti era al sicuro nel suo mondo solitario.
Tornarono varie volte dal Mago Bianco, che ora le faceva così paura, ma che sembrava conoscere una strana magia che induceva i diavoletti litigiosi a diminuire sempre più la ferocia dei loro assalti.
Ogni sera, con le orecchie finalmente libere dalle protesi, si addormentava nel conforto del silenzio, ma al risveglio, ogni giorno, avrebbe voluto chiedere il perché di quella punizione, ma solo agli udenti è concesso di organizzare e smaltire le proprie angosce nella sequenza dei “perché”, ai bambini sordi resta solo il tormento di un' angoscia senza forma.
Col passare degli anni la bambina si adattò alla nuova situazione e con curiosità, intelligenza e una buona dose di fantasia, riuscì a comprendere molte cose.
La prima era che tutti quei movimenti strani fatti con la bocca finalmente avevano un senso: servivano a far muovere i diavoletti!
Anche sul loro movimento aveva ragionato.
Si ricordava che durante le feste, aveva visto che le persone potevano muoversi allo stesso ritmo che anche lei riusciva a seguire percependo i sobbalzi del suo diaframma: questo era il “Ballo”.
Pensò che anche i diavoletti dovessero ballare seguendo il ritmo imposto dai movimenti della bocca di chi vicino a lei stesse parlando.
La sua testa era dunque una sala da ballo sul cui pavimento i diavoletti danzavano i suoni che provenivano dall'esterno.
A seconda della loro altezza, i passi corrispondenti potevano essere più pesanti o più leggeri.
Se i suoni erano molto acuti, poteva capitare che i diavoletti non toccassero più il pavimento della sua “Testa- Sala da Ballo” e sembrassero volati via.
Aveva anche arguito che ogni parola che veniva pronunciata era un particolare passo della danza, e che tante parole in fila erano la sequenza dei passi di un ballo.
Questo ballo si chiamava “Discorso”.
Avevano cercato di insegnarle a pronunciare le parole, ma a lei non piaceva “muovere la bocca” perché bisognava anche dare forma al respiro con i muscoli della gola, come lei con le dita sapeva dare forma ai suoi fiocchi di cotone, ma quando lo faceva i diavoletti sembravano danzare in modo strano e scomposto, e questo le dava fastidio.
Decise quindi di restare muta.
Tutto questo le costava grande fatica, tanto impegno e lunghe ore di esercizio, ma appena poteva, liberatasi delle protesi, si rifugiava nel suo gioco silenzioso ed era come un ritorno a casa, per ritrovare la sua verità, la sua essenza.
In quei momenti sua madre, se era libera dal suo lavoro, la guardava a lungo, ammirandone il talento nel saper dare forma con le mani a quella fibra vegetale, che per lei costituiva l'anima comune di tutta la sua famiglia di ex schiavi della piantagioni, e le venne in mente di completare questo miracolo insegnandole a tessere.
Con grande rispetto e cautela, cominciò ad avvicinarsi ai confini di quel mondo magico del gioco della figlia, aspettando che fosse lei a concederle di entrare e poi con i gesti, le parole e con grande amore, guidò le sue mani perché riuscissero ad ottenere da quella massa bianca e informe, un filo di fibre avvolte e agganciate l'una all'altra lungo quanto si voleva. Marguerite apprese in fretta questa nuova abilità e la introdusse quale nuovo elemento nelle sue creazioni.
In una fase successiva, le fece capire che quel filo era ancora troppo fragile ed era giusto che fosse così, ma che si poteva acquistare un filo lunghissimo e resistente prodotto dalle macchine in un luogo chiamato “filanda”.
Con esso si potevano fare nodi di vario genere e, aiutati da un piccolo uncino, si potevano fare oggetti di pregio alla moda europea.
Ma le interessava soprattutto condurla per il sentiero conosciuto delle sue tradizioni.
Comprarono un piccolo telaio con cui insieme cominciarono a tessere piccoli scampoli di tela, via via sempre più lunghi ed elaborati, fino a portarla all'utilizzo dei fili colorati con cui creare le esuberanti fantasie cromatiche tipiche della sua etnia.
Ci volle molto tempo, ma Marguerite era molto abile con le mani ed imparò con entusiasmo, ma non smise mai di giocare con i suoi candidi fiocchi, neanche quando ormai stava uscendo dall'infanzia.
Finiti i lavori che svolgeva come domestica, le ore di studio e quelle passate al telaio, a tarda sera si sedeva sul tappeto della sala grande, come quando era piccina, e ritornava nel suo mondo togliendosi le protesi.
Assaporava il crocchiare sommesso e profondo delle fibre di cotone che si strappavano sotto i polpastrelli delle sue dita con tutto il suo essere, come in una meditazione, dalla quale traeva poi le immagini che prendevano forma nella disposizione dei fiocchi che aveva prodotto.
L'impegno che metteva nello studio e il lavoro al telaio avevano generato in lei una sorta di magica consapevolezza che la spinse ad ottenere risultati sempre migliori.
Aveva assimilato l'uso delle parole interpretandole come i passi della danza dei diavoletti e i discorsi come le sequenze che formano un ballo. Alle “Passo- Parole” e ai “Ballo-Discorsi” si aggiunsero anche i “Ballo-Pensieri” o “Ballo-Ragionamenti” quando, col tempo, si accorse che i diavoletti potevano ballare anche se non c'era nessuno nelle vicinanze a muovere la bocca.
Le era parso strano che potesse guidare lei stessa nella sua mente i diavoletti nella loro danza, ma poi si era abituata.
Con l'aiuto di sua madre e il lavoro al telaio, successe che il “Ballo-Pensieri” e i “Ballo-Discorsi” furono affiancati dai “Filo-Pensieri” e i “Filo-Discorsi” perché entrambi si potevano seguire, tirare proprio come un filo, e a volte, purtroppo, si ingarbugliavano anche.
Procedendo in questa evoluzione, i “Filo-Discorsi” potevano diventare le “Trame” di un ragionamento complesso, il “Tessuto” di un' argomentazione.
Finalmente arrivarono i colori a portare le emozioni, come nella narrazione di un romanzo, mentre i motivi geometrici dei suoi tessuti etnici furono le “Rime” di una poesia. Grazie al lavoro al telaio, Marguerite spinse la sua curiosità verso testi scritti sempre più complessi.
Tutto procedeva di pari passo nella sua testa come fra le sue mani, portandola sempre più avanti nella consapevolezza di sé e arricchendola interiormente come poche fra le persone più care che da sempre le stavano vicino avrebbero potuto immaginare.
Tanto tempo era passato e ormai Marguerite era diventata una bellissima giovane donna piena di talento e di sensibilità.
Una notte fece un sogno:
era nella penombra di una stanza ovale sgombera da mobilio ma arricchita da stucchi alle pareti e da sontuosi tendaggi di velluto azzurro che ornavano i due ingressi opposti e le due grandi finestre affacciate su uno splendido giardino inondato di sole.
Da uno degli ingressi cominciò ad intravedere una sagoma enorme che si avvicinava.
La figura si delineò in quella di due persone in sella ad un cavallo.
Finalmente entrarono nella stanza oltrepassando l'ampio riquadro dell'ingresso e comparve un magnifico cavallo bianco con, sul dorso, una donna seminuda, seducente e bellissima, nell'atto di un tenero abbraccio, rivolta verso un uomo vestito di verde che da dietro la sosteneva tenendo le briglie. Il cavallo passò davanti a Marguerite.
Folgorata dalla bellezza della scena, fece appena in tempo a notare che l'animale teneva appesi al morso un mazzo di rose e un violino, che li vide allontanarsi ed uscire attraverso la porta situata all'altro capo della stanza.
Si svegliò di soprassalto. Non aveva mai visto niente di più bello!
Venne il mattino, era domenica, e non dovendo occuparsi dei suoi impegni di studio, si recò fuori sotto al porticato e sedette al tavolo di marmo portando con sé il suo sacco di iuta con la bambagia.
Avrebbe voluto fare il suo solito gioco ma continuava a pensare al sogno a al violino che, col suo significato, velava quel magico ricordo di malinconia.
Quello strumento dalle note così alte da essere per lei irraggiungibili le ricordava la sua sordità e per questo, a suo giudizio, relegava quel sogno d'amore per sempre al di fuori della sua realtà personale.
Così assorta, aveva disposto i fiocchi di cotone in modo uniforme senza configurare nulla di preciso, quando alzando lo sguardo vide il suo principe.
Non sapeva chi fosse, né il perché del suo arrivo, ma era certa di una cosa:
le piaceva tantissimo!
Lo vide passare mentre cercava suo padre per prendere servizio come aiuto giardiniere, e non riusciva a distogliere lo sguardo, mentre lui la ricambiava con un sorriso.
Non c'erano violini a suonare quando lei, avendolo perso di vista, chiuse gli occhi respirando a mala pena, ma quello che apparve nella sua mente fu forse più piacevole della più dolce melodia: migliaia di fiocchi si alzarono dal tavolo per fluttuare nell'aria intorno a lei e si accesero di una luce d'oro come tante schegge di sole vaporose e morbide che le sciolsero ogni malinconia e le illuminarono il sorriso, e non sentì più i diavoletti muoverle i pensieri ma solo un nuovo e formidabile ballerino che dal petto le era balzato in gola per saltare come un matto fino a farle rimbombare le tempie e a spezzarle il fiato.
In seguito si conobbero e si frequentarono ma fra di loro era già successo tutto al primo sguardo.
Erano certi ognuno di una cosa:
lei che non fossero solo i suoi talenti e la sua bellezza ad attrarlo e che non lo avrebbero respinto i suoi problemi, e lui che la aveva cercata da sempre e che l'avrebbe sempre amata col suo silenzio e il suo magico Gioco dei Fiocchi di Cotone.